lunedì 12 marzo 2012

Contributo del prof. F. Ruggieri al tema: "La decrescita economica è paventabile o è una opportunità"

CRESCERE, DECRESCERE, CRESCERE MEGLIO
Nella seconda metà del 2008 il sistema finanziario privato (banche e assicurazioni) degli USA ha subito perdite gravi a causa delle esposizioni assunte verso soggetti rivelatisi incapienti.
Il rischio di tali operazioni è assunto in un contesto decennale, connotato dal crescente ricorso delle famiglie al credito al consumo e a strumenti di pagamento virtuali. Anche il settore immobiliare, tradizionalmente solido, è interessato da agevolazioni al credito (mutui cd subprime) intese a sostenere il mercato, che infatti conosce una crescita esasperata fra il 1997 e il 2006 con l’ascesa dei prezzi del 124%.
L’indebitamento delle famiglie per l’acquisto è sostenuto dal crescente valore degli immobili fino a che questo non tocca un punto di massima superiore, determinando uno stallo del mercato, il ritracciamento dei prezzi verso il basso, la riduzione della capacità di garantire la restituzione, le richieste di rientro del sistema bancario, il dòmino dei pignoramenti.
Le cause remote del fenomeno non sono ancora del tutto chiarite ma un concorso di circostanze è certamente responsabile.
Le imprese occidentali hanno favorito il ricorso al pagamento differito dei consumi nell’intento di imprimere a questi un’espansione nel confronto sempre più difficile con la fortissima concorrenza delle economie emergenti, caratterizzate da strutture dei costi più favorevoli (salari bassi, prelievo fiscale modesto, assenza di prelievo contributivo e elevatissima produttività del lavoro).
Anche il sistema bancario e assicurativo hanno favorito l’accesso al credito, individuando in esso opportunità di impiego profittevole dei capitali (resi disponibili dai bassi tassi), nonché di produzione di utili supplementari mediante cessione dei servizi di pagamento virtuale.
La politica della banca centrale USA nel periodo di riferimento è accomodante, mantenendo bassi i tassi di interesse.
L’intento è di consentire al sistema delle imprese, mediante capitali a buon mercato, un recupero del GAP esistente verso le economie emergenti: procurare un costo del denaro più basso per compensare i costi più alti pagati al fattore lavoro e allo Stato, quest’ultimo sempre più impegnato nel mantenimento del c.d. welfare, i cui oneri si moltiplicano per l’accrescimento della popolazione inattiva, la decrescita demografica e l’impoverimento della forza lavoro disponibile.
Infine la delocalizzazione delle produzioni industriali verso paesi emergenti (che offrono il vantaggio dei bassi costi di produzione di cui sopra) e l’autosufficienza finanziaria dei detti paesi (caratterizzati da consumi ancora prettamente di sussistenza, nonché dal vastissimo fenomeno delle rimesse di ricchezza prodotta dai lavoratori emigrati proprio nei paesi occidentali), favoriscono l’indirizzarsi dei capitali occidentali verso attività puramente finanziarie e non reali: l’impiego dei capitali nei servizi di gestione dei pagamenti (credito al consumo, mutui, carte di debito) appare l’alternativa possibile.
All’atto di constatare l’insufficienza della produzione reale a pareggiare il valore nominale dei capitali circolanti il settore bancario entra in crisi.
I sistemi di distribuzione del rischio adottati (assicurazione e riassicurazione delle operazioni di impiego, incorporazione delle attività finanziarie in titoli che poi si chiameranno tossici) non riescono a coprire le esposizioni, e diffondono invece il contagio delle sofferenze.
La crisi della finanza privata determina l’impossibilità, per questa, di continuare a finanziare chicchessia, anche gli impieghi sicuri (credit crunch).
Essa viene contrastata mediante iniezioni di capitali pubblici, procurati mediante emissioni di obbligazioni pubbliche (cd. debito sovrano), ma sotto condizione di adottare regole severe nella selezione del merito di credito, di una gestione prudenziale e della restituzione integrale: tutto ciò che vale a perpetuare il credit crunch, fino alla restituzione ed oltre,.
Sospendendo per ora il giudizio sugli effetti c.d. reali di tale ricorso al debito pubblico (spiazzamento e riduzione degli investimenti privati) i risparmiatori non hanno tollerato la vertiginosa crescita delle esposizioni degli Stati, e sopratutto di quelli già fortemente indebitati per la gestione ordinaria del welfare: sanità, previdenza, apparati istituzionali, scuola, occupazione e servizi.
Ecco allora la seconda crisi finanziaria della cronaca: i risparmiatori vendono i titoli degli Stati meno solvibili, ed il valore di tali titoli crolla. Gli Stati, che devono emetterne continuamente di nuovi per finanziare il welfare e per il proseguimento dell’azione di sostegno al settore bancario, sono obbligati ad offrire tassi elevati e premianti, così dando più corpo ai dubbi circa la loro capacità di onorare il debito e vedendosi declassare il loro merito di credito (c.d. rating): è la spirale del settembre-novembre 2011, che si sintetizza nella iperbole degli spread (l’onere assicurativo che è necessario pagare per rendere la solvibilità dei titoli sotto attacco simile a quella dei titoli migliori), e che ancora non è finita.
La consecuzione dei due grossi scuotimenti subiti dai sistemi economici occidentali pone questi, noi tutti, stabilmente ai margini dell’economia mondiale.
In questo contesto ci si chiede: “che fare” ?
Crescere, nella competizione con economie prive degli oneri del welfare appare impresa economicamente impossibile.
Rinunciare al welfare appare impresa eticamente impossibile: esso fa parte della nostra identità e civiltà occidentale.
Ridimensionare il welfare, mediare fra il ciclo (liberista) reddito-produttività-sviluppo e il ciclo (statalista) reddito-distribuzione-giustizia sociale (al netto delle interpretazioni, mai confluite ad unità, di questo obbiettivo) è la strada intuitivamente più accessibile: un compromesso insomma, sebbene tardivo, perché giunto quando il primo ciclo, a lungo presuntuosamente trascurato dai paesi occidentali, avanza prepotentemente sostenuto dai paesi emergenti. Tale compromesso non è di agevole realizzazione (si vedano le resistenze del popolo greco anche solo alla rimodulazione dello stato sociale attraverso il contenimento della spesa pubblica) e comunque non è di pronto risultato.
Allora ? Qualcuno propone: DECRESCITA!
Cioè rivedere lo stile di vita e di consumo occidentali, convincersi di avere bisogni più contenuti di quelli indotti dalla cultura del consumo e dell’emulazione. Vivere con meno beni e più consapevolezza. Preservare l’ambiente.
In altri termini fare un passo indietro, ma proprio quando il mondo emergente ne fa due avanti...
Provocazione o opportunità ?
Rivedere il lifestyle occidentale è probabilmente necessario, ma forse (anche) in una direzione diversa: lavorare di più, lavorare più a lungo, lavorare tutti, moderare si i consumi correnti ma per concentrarsi sugli acquisti durevoli e produttivi, cogliere le opportunità di guadagno offerte dalla protezione dell’ambiente, ridurre all’essenziale le attività energivore e scegliere le energie rinnovabili.
Riscoprire, noi occidentali, la ns storica identità di innovatori, di civiltà avanzata.
Affrontare insomma la competizione internazionale, non recederne, ma puntando -invece che sul confronto quantitativo e mercatistico- sulla qualità della vita collettiva come frontiera dell’innovazione e dello sviluppo: anche economico.

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